LEGGE IORI E APPALTI: LEGACOOPSOCIALI FA CHIAREZZA PUNTO PER PUNTO

Tutto quello che bisogna sapere sugli effetti della Legge Iori in merito agli appalti e al riconoscimento della qualifica per gli operatori sociali. Ecco la nota dettagliata di Legacoopsociali:

Finalmente l’attesa soluzione legislativa al problema degli “operatori privi di titoli”

La recente l’approvazione di un estratto essenziale della proposta di legge “Iori”, attraverso un emendamento all’articolo 1 della legge 205/2017 (commi dal 594 al 601) ha portato chiarezza nella condizione dei cosiddetti “operatori privi di titoli”, pari – per quanto riguarda i soli educatori – ad un contingente stimato in circa 200.000 persone, occupate in essenziali servizi socio-educativi e di riabilitazione, integrazione socio-sanitaria ed inserimento lavorativo di persone svantaggiate e disabili.
Si tratta di una grande conquista di civiltà: perché chi lavora negli appalti deve avere pari diritti rispetto agli altre/i lavoratrici e lavoratori, e perché gli operatori “privi di titoli” – espressione che per altro corrisponde a precise figure contrattuali, inserite nei CCNL del Terzo Settore: cfr. ad esempio i livello C1 e D1 del CCNL delle Cooperative Sociali – sono in realtà persone spesso relativamente anziane, che lavorano talvolta da decenni, e che i servizi socio-sanitari-educativi e di inserimento lavorativo li hanno spesso concepiti, ideati, progettati e realizzati.
Non conosciamo un caso di laureato come “terapista occupazionale” impiegato nel settore della cooperazione sociale di inserimento lavorativo, mentre conosciamo una pluralità di lavoratori divenuti ottimi operatori sociali, e di operatori sociali divenuti splendidi maestri d’arte o dirigenti d’azienda. Persone tutt’altro che poco professionali, che talvolta sono la maggioranza del personale di associazioni, fondazioni, cooperative sociali e financo dei servizi pubblici.
Persone su cui le cooperative sociali ed i bilanci pubblici hanno investito risorse ingentissime, in termini di formazione ed aggiornamento. Persone spesso plurititolate, come dimostra la notevole presenza tra loro di laureati e di diplomati. A tal proposito, nei vari ordinamenti regionali si era finora operato con normative specifiche finalizzate al reclutamento, alla formazione ed al riconoscimento degli operatori dei vari settori di servizi socio-sanitari-educativi, anche individuando nuove figure professionali come gli animatori sociali, oppure introducendo specifiche “clausole sociali” a tutela del personale occupato.

Le modalità del riconoscimento (per titoli e/o per anzianità) della qualifica di educatore professionale socio-pedagogico

Le nuove norme definiscono innanzitutto la nuova figura dell’educatore professionale socio-pedagogico (laurea triennale) e del pedagogista (laurea specialistica), che si vanno ad affiancare a quella dell’educatore professionale socio-sanitario. Oltre alla laurea (cfr. comma 595), sono previste forme semplificate – mediante l’autocertificazione da parte degli operatori, oppure, ma non necessariamente, la certificazione da parte dei datori di lavoro – di riconoscimento della qualifica tramite il riconoscimento di una certa anzianità anagrafica e/o professionale (cfr. comma 598).
Riconoscimento eventualmente integrato, nei casi di periodi certificati inferiori – tre anni di attività come educatore, oppure «diploma rilasciato entro l’anno scolastico 2001/2002 da un istituto magistrale o da una scuola magistrale» – dalla frequenza di corsi universitari pari a 60 CFU (cfr. comma 597). La qualifica di educatore professionale socio-pedagogico non è quindi esclusivamente legata al possesso della relativa laurea, ma viene riconosciuta anche a chi è in possesso delle altre condizioni fissate dalla legge, anche ai fini della futura partecipazione ai concorsi pubblici.
Per altro, il riconoscimento della qualifica professionale, nelle more del rinnovo del CCNL, non è necessariamente legato alla ridefinizione dell’inquadramento contrattuale, come suggerisce il principio stabilito, riguardo ai dipendenti pubblici, dal comma 600: «L’acquisizione della qualifica di educatore socio-pedagogico, di educatore professionale socio-sanitario ovvero di pedagogista non comporta, per il personale già dipendente di amministrazioni ed enti pubblici, il diritto ad un diverso inquadramento contrattuale o retributivo, ad una progressione verticale di carriera ovvero al riconoscimento di mansioni superiori».
La legge ha costituito non solo un riconoscimento diretto della qualifica a determinate condizioni (per titolo od anzianità) ma anche un diritto soggettivo dei lavoratori che potranno acquisire la qualifica ottenendo i 60 CFU entro i prossimi tre anni accademici, frequentando i corsi che le facoltà universitarie preposte organizzeranno a partire dall’autunno prossimo (cfr. comma 597).

La scommessa della riqualificazione mediante i 60 crediti formativi universitari

Occorre fare due premesse. La prima è relativa alla tempistica dei corsi per l’acquisizione dei 60 CFU che, secondo il dettato del comma 597, sono «da intraprendere entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge».
Formulazione che a nostro avviso dovrebbe intendersi come obbligo delle Facoltà universitarie di avviare gli ultimi corsi al massimo entro l’autunno 2018, utilizzando così tutti i tre prossimi anni accademici, a fronte del grande numero di persone interessate. A tale proposito, ci permettiamo di osservare come le Università debbano attrezzarsi per uno sforzo formativo straordinario, conseguente all’esigenza di riqualificazione del sistema di Welfare pubblico, tenendo inoltre conto della particolare natura di questa leva di studenti-lavoratori: relativamente anziani nella media, con carichi di famiglia e gravosi impegni lavorativi da far convivere. Osserviamo con piacere che la legge lascia ad ogni Università ampia libertà di organizzazione dei corsi previsti, facilitandone in tal modo una rapida e flessibile attuazione e la migliore espressione delle capacità didattiche delle Facoltà coinvolte.
A nostro parere, lo strumento della formazione a distanza e la mancanza di obbligo di frequenza non debbono permettere la dequalificazione dell’offerta formativa, essendo esse realistici strumenti di facilitazione dell’accesso ai corsi per molte decine di migliaia di studenti-lavoratori impegnati nei servizi. Auspichiamo una definizione condivisa con le parti sociali interessate, sia riguardo ai contenuti formativi che ai costi che graveranno sui frequentanti, al fine di evitare una concorrenza tra Università che potrebbe condurre ad una negativa dequalificazione ed a eccessive sperequazioni nella compartecipazione alla spesa. Si tratta di un impegnativo processo che deve inoltre tenere conto dell’esigenza – visto che per ragioni di contenimento della spesa pubblica il costo dei corsi è posto a carico dei frequentanti, che sono soprattutto lavoratori a basso reddito, e del carattere obbligatorio dei corsi ai fini del completamento del percorso di qualifica – di contenere al massimo le tasse di frequenza.
Come riferimento, auspichiamo che i costi dei corsi per i 60 CFU siano in ogni caso inferiori ai 500 euro, oltre alla previsione dell’applicazione della no tax area per chi ne sia in diritto. Ci pare inoltre un dato di potenziale implementazione sia della formazione universitaria, che della professionalità dei servizi di Welfare, che i corsi per i 60 CFU vengano congegnati in modo tale da permettere, a chi lo volesse, di proseguire eventualmente i suoi studi fino all’ottenimento della laurea. Ciò anche in considerazione del fatto che il numero chiuso dei corsi rivolti agli operatori del sistema socio-sanitario-educativo sta agendo in termini tali da far prefigurare al nostro paese un grave gap di professionisti nei prossimi anni.

Le prospettive per gli operatori dell’area 0-6

Riteniamo inoltre che, nella programmazione dei corsi, le Università debbano tenere conto dell’esigenza di coordinamento tra le norme in esame e quanto previsto dall’articolo 14 del Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 65, Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera e), della legge 13 luglio 2015, n. 107, laddove esso prevede al comma 3 che: «A decorrere dall’anno scolastico 2019/2020, l’accesso ai posti di educatore di servizi educativi per l’infanzia è consentito esclusivamente a coloro che sono in possesso della laurea triennale in Scienze dell’educazione nella classe L19 a indirizzo specifico per educatori dei servizi educativi per l’infanzia o della laurea quinquennale a ciclo unico in Scienze della formazione primaria, integrata da un corso di specializzazione per complessivi 60 crediti formativi universitari. Continuano ad avere validità per l’accesso ai posti di educatore dei servizi per l’infanzia i titoli conseguiti nell’ambito delle specifiche normative regionali ove non corrispondenti a quelli di cui al periodo precedente, conseguiti entro la data di entrata in vigore del presente decreto». Normativa, questa contenuta nella ultima frase, di maggior favore rispetto a quanto previsto dalla “legge Iori”.
Riteniamo per altro che la definizione della modalità attuativa, a partire dall’a.a. 2018/2019, dei corsi specifici di Scienze dell’educazione e di Scienze della formazione primaria debba tenere conto della necessità sia di ottenere una professionalizzazione specifica, che di evitarne un aggravio in termini di tempi ed oneri per i frequentanti.

La clausola sociale a tutela dell’occupazione del personale occupato

La seconda premessa è che, trattandosi di diritto soggettivo istituito a favore degli operatori in servizio, esso va considerato come già operante dal 1° gennaio 2018, data alla quale si fa riferimento per il possesso dei requisiti di anzianità professionale. Fatto che prevale su quello della successiva acquisizione dei 60 CFU, che opererà in via confermativa del diritto soggettivo, e non può essere intesa come clausola sospensiva.
A tal proposito, riteniamo che sarebbe illegittimo, e sanzionabile in termini giurisdizionali, l’eventuale rifiuto delle stazioni appaltanti di considerare la qualifica professionale (per quanto da perfezionare) degli operatori in possesso di almeno tre anni di esperienza, anche alla luce di quanto previsto come “clausola sociale” dal successivo comma 599. Parimenti, richiamando quanto disposto dalla nota Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 1 marzo 2007, Principi da applicare, da parte delle stazioni appaltanti, nella scelta dei criteri di selezione e di aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi (GU n.111 del 15-5-2007), ci pare di poter affermare che sarebbe inaccettabile una eventuale discriminazione nella valutazione dei titoli del personale la cui qualifica è stata riconosciuta ai sensi della legge 205, rispetto al personale in possesso dei titoli di laurea. Giova ricordare come la citata circolare abbia avuto origine dalla necessità di far presente alle stazioni appaltanti la necessità di evitare al nostro Paese le ripercussioni negative dei ripetuti rilievi in materia appaltistica, giunti dall’Unione Europea.
A maggior ragione, la valutazione dei titoli – ammissibile, come recita la circolare, solo in termini di condizione di accesso alla procedura di affidamento, e non come elemento di valutazione qualitativa durante il procedimento – perde logicamente ogni senso, qualora si tenga presente la necessità prioritaria di garantire, in caso di cambio dell’affidatario, la stabilità al personale, in ossequio a quanto disposto sempre dalla legge 205 (oltre che dall’art. 50 del Codice degli Appalti e dalle normative regionali). Infatti la nuova legge ha effetti più ampi, prevedendo al comma 599 un generalizzato diritto alla conservazione del posto di lavoro. Infatti: «I soggetti che, alla data di entrata in vigore della presente legge, hanno svolto l’attività di educatore per un periodo minimo di dodici mesi, anche non continuativi, documentata mediante dichiarazione del datore di lavoro ovvero autocertificazione dell’interessato ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, possono continuare ad esercitare detta attività; per tali soggetti, il mancato possesso della qualifica di educatore professionale sociopedagogico o di educatore professionale socio-sanitario non può costituire, direttamente o indirettamente, motivo per la risoluzione unilaterale dei rapporti di lavoro in corso alla data di entrata in vigore della presente legge né per la loro modifica, anche di ambito, in senso sfavorevole al lavoratore».
Normativa che, logicamente, non ha senso solo nel rapporto tra singolo operatore e cooperativa od altro ente di appartenenza, ma che vincola il rapporto tra la stazione appaltante ed ente affidatario. La nuova normativa corrisponde a quanto acquisito dalla giurisprudenza e dalla pratica amministrativa, che aiuta ad interpretare con elasticità anche quanto non definito in termini legislativi, come ad esempio la possibile compresenza di educatori professionali socio-sanitari e socio-pedagogici in strutture di integrazione socio-sanitaria. Argomentazione che ritroviamo in molti singoli pronunciamenti in sede di leges speciales di singole procedure di affidamento.
Tra le quali ci piace segnalare quella recente dell’ASL della Città di Torino che, tra i primi enti ad applicare le nuove norme di legge, ha ammesso la continuità lavorativa per gli «eventuali lavoratori attualmente impegnati che non fossero in possesso dei requisiti professionali richiesti, anche avvalendosi delle possibilità offerte dalla Legge di bilancio 2018, art. 1, commi 597, 598 e 599 della finanziaria».

Valorizzazione dell’interdisciplinarietà del lavoro sociale

Il lavoro nel Welfare è per sua definizione un’attività che raggiunge la massima efficacia nell’operare a rete, attraverso l’apporto interdisciplinare di diverse professionalità, valorizzando i diversi apporti provenienti dal mondo della salute, dell’assistenza sociale, delle attività educative, della cultura, dell’inclusione lavorativa, dell’organizzazione comunitaria ed altre ancora.
La nuova legge, per evidenti ragioni di urgenza e rinviando ad altre fasi del processo normativo il coordinamento tra le diverse professioni (in questo caso le due tipologie di educatori professionali) ha lasciato in sospeso la regolamentazione dei reciproci rapporti e compresenze, ad esempio nei servizi sociosanitari. Ma in ogni caso non si sta operando in un vuoto giuridico, visti i pronunciamenti intervenuti da tempo da parte della Magistratura. Ci riferiamo in particolare a quanto affermato con la sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato n. 05337/2015, che ha invitato a considerare in forma globale «l’oggetto dell’appalto, che è riferito, oltre che ai servizi riabilitativi, a quelli educativi e socio assistenziali […] che non privilegiano il solo apporto terapeutico sanitario, peculiare alla qualifica di educatore professionale ex d.m. n. 520 del 1998 ed in possesso del relativo diploma universitario abilitante, […] ma richiedono – nell’ambito di un progetto integrato – professionalità differenziate, con diversa sensibilità, sia per bagaglio culturale, che per esperienza professionale pregressa, verso il momento educativo, di integrazione e recupero sul piano sociale della persona in condizione di disabilità».