IL TEMPO, INDAGINI SUI VESTITI USATI: LA DENUNCIA DELLE COOPERATIVE

 

L’inchiesta è per gestione non autorizzata di rifiuti tessili. Capi d’abbigliamento gettati dai cittadini nei cassonetti gialli per la raccolta di indumenti che poi, come per incanto, finiscono per essere rivenduti, senza la cosiddetta «igienizzazione» prevista per legge, come abiti usati. Un business milionario, stando al fascicolo aperto dalla Procura della Repubblica di Roma, che mira a verificare l’esistenza di interessi illeciti.

 

LE CARTE DELL’INCHIESTA

L’indagine, del sostituto procuratore Alberto Galanti, è nata sulla base di alcune denunce, salvo poi ampliarsi e svelare un supposto giro di denaro che supererebbe i 2 milioni di euro. Gli abiti usati, infatti, una volta prelevati sarebbero rivenduti in altri mercati, anche all’estero, senza i dovuti trattamenti di igienizzazione che la normativa impone prima della commercializzazione. Il fascicolo è blindato e presto potrebbe riservare delle sorprese. Perché per fatti simili, nei mesi scorsi, sono stati disposti numerosi arresti a Napoli, nel quadro di un’indagine che ha fatto luce sul business da capogiro che ruota attorno agli abiti gettati nei bidoni gialli e rivenduti senza i dovuti trattamenti. Secondo le ricostruzioni finora svolte, la tecnica sarebbe abbastanza semplice e ben rodata: questi abiti (ritenuti rifiuti tessili), una volta prelevati finivano sui mercati dell’usato senza essere igienizzati, consentendo così un abbattimento non indifferente dei costi. Stando alle ipotesi, però, il trattamento sarebbe stato inserito all’interno delle documentazioni. L’inchiesta partenopea, infatti, ha svelato come i vestiti (in realtà rifiuti) finissero in Germania etichettati come merci recuperate, selezionate e igienizzate.

 

IL CASO DEL MONSIGNORE

Tornando alla realtà romana, già tempo fa – nel 2011 – la Procura di Roma si era interessata al «traffico dei rifiuti», come per legge sono catalogati gli abiti di seconda mano, partendo dalle denunce delle due cooperative che, per conto di Ama, si occupano del servizio di raccolta e commercializzazione in città, i consorzi Alberto Bastiani (attraverso le cooperative Lapemaia ed Ermes) e Il Solco (con le coop Agape, Rau e New Horizons), aggiudicatari dell’ultimo bando della municipalizzata che risale ormai al 2008. In particolare, si contestava la presenza nel XV municipio (ex XX) di contenitori gialli, simili anche per fattezze a quelli dei due consorzi, ufficialmente riconducibili alla Chiesa ortodossa bielorussa e slava, la cui installazione era stata inizialmente autorizzata dagli stessi uffici municipali. Un caso che rimbalzò sui media anche nazionali e che diede impulso agli approfondimenti. Da un lato, la circoscrizione revocò la concessione di suolo pubblico per i cassonetti che, di mese di mese, avevano raggiunto le diverse decine di unità, se ne contarono circa 80, dall’altro si attivarono la polizia provinciale e la Procura. Nel corso dei controlli, che portarono anche al sequestro di un deposito sulla Flaminia dove venivano ammassati i sacchi di vestiti e alla denuncia dei responsabili per attività illecita di raccolta e smaltimento di rifiuti, sarebbe emerso che la merce recuperata dai cassonetti gialli, anziché essere devoluta in beneficenza, sarebbe stata invece rivenduta. Una vicenda controversa, considerando anche il fatto che rispetto alla figura di monsignor Lucas Rocco Massimo Giacalone, referente per la chiesa che aveva dato avvio all’operazione all’interno dei confini municipali e intestatario della concessione, lo stesso Vicariato romano aveva preso le distanze, precisando di «non sapere nulla dell’esistenza di quella chiesa, qualunque iniziativa del signor Giacalone non ha nulla a che vedere con la Chiesa cattolica». Il pm ha comunque disposto, nel giugno 2012, l’archiviazione, in estrema sintesi reputando tra gli altri aspetti che «non c’è dubbio che rifiuto è tutto ciò che non può essere più utilizzato, riutilizzato o recuperato (à) Orbene si ritiene che i vestiti che le persone hanno depositato nei cassonetti adibiti alla raccolta di abiti usati non possano essere classificati come rifiuti poiché è noto che in tali raccoglitori vengono messi capi di abbigliamento in buone condizioni destinati al riutilizzo secondo la loro funzione originaria. Chi ripone nei contenitori gialli capi di abbigliamento non intende affatto disfarsene ma nella sostanza fa una donazione nella convinzione che il bene continuerà ad assolvere la sua funzione originaria».

 

IL NUOVO FILONE D’INDAGINE

Archiviato il procedimento, la guerra dei cassonetti è comunque continuata in strada, vista anche l’iniziativa di quella stessa chiesa di ricollocare i contenitori gialli oggetto di indagini. Da un lato, le cooperative autorizzate che dalla gestione dei contenitori gialli traggono profitti che superano i due milioni di euro, hanno riproposto le denunce considerato anche il danno economico che rischiano: in base all’appalto che le lega ad Ama, infatti, sono obbligate a raccogliere una determinata quantità di abiti per evitare di incappare in una penale (10 euro a tonnellata), in pratica se a causa della «concorrenza» la materia prima viene a mancare potrebbero rimetterci. Dall’altro, sono intervenute novità anche sul piano normativo, a partire dalle recenti pronunce della Cassazione, che reputano a tutti gli effetti gli indumenti di seconda e terza mano rifiuti, ciò che spiega anche la necessità delle procedure di trattamento e igienizzazione prima della vendita a terzi, certo più costose del semplice «trasferimento» sui banchi dei mercati anche esteri. Su questo fronte, come detto, la Procura di Roma è al lavoro.-

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