SALUTE PSICHICA, AELLE: “IL FUTURO SONO I PROGETTI PERSONALIZZATI”

Chi ha un disagio psichico e ne è ignaro non se ne accorge ma crea attorno a sé una catena di esistenze sbilanciate e di famiglie che vivono al limite del collasso. Mogli, mariti, figli, fratelli, amici: quando non si sceglie la via della cura, ad essere travolti dall’impotenza sono in tanti ed a soccombere non è solo il malato. Perché l’incapacità di riconoscere il proprio stato, spesso insita nella malattia stessa, produce dinamiche insostenibili e finisce per soggiogare le vite di intere famiglie. Così la conta di chi finisce in trappola si fa sempre più serrata e alcune situazioni rischiano di sfuggire di mano.

Anche quando ci si rivolge alle cure, talvolta, le difficoltà persistono: perché a fare la differenza tra un paziente che può farcela e uno che rischia di non intraprendere la via per una vera riabilitazione è spesso proprio la capacità di non lasciare solo chi è attorno, puntando sul sostenere la sua rete di relazioni e di contatti. Costruire un ponte tra la casa e il centro di salute mentale è infatti la chiave per sbloccare lo stallo in cui si vive sospesi e ambire così a una cura riuscita.

Il guado tra casa e centro di salute è il vulnus che, se superato, potrebbe portare la Legge Basaglia a un vero compimento, affinché il luogo di cura non debba essere inteso come ristretto alle mura del CSM, ma allargato sul territorio. “Per questo i nostri operatori entrano nella casa dell’utente, osservano le dinamiche familiari, diventano fonte di informazioni utili per i terapeuti che se ne servono durante il percorso di cura – racconta Antonietta Lo Scalzo, presidente della cooperativa Aelle Il Punto, nata proprio dall’esperienza rivoluzionaria della Legge 180 che portò alla chiusura dei manicomi. Talvolta operiamo con persone che non vogliono uscire di casa e recarsi ai servizi. Gli operatori rappresentiamo un ponte, un collegamento tra la casa dell’utente e il centro di salute. L’intervento a casa e l’accompagnamento nei luoghi di cura, CSM, centri diurni e all’interno della città, rappresenta una concreta opportunità per il paziente di uscire dalle situazioni più ristrette, in cui spesso ci si rifugia, per cercare spazi e occasioni socializzanti, attività nuove e per l’attivazione di percorsi di inclusione sociale”.

La direzione da seguire è tracciata. “Il futuro dovrebbe essere questo: attraverso i budget di salute si definirà un progetto personalizzato per ogni paziente – spiega Lo Scalzo-. E questo è molto importante perché le persone potranno così continuare a stare nella propria casa ma con il sostegno psicologico di operatori che, su appuntamenti fissi bisettimanali o trisettimanali, potranno intervenire a domicilio e da questo spostarsi all’esterno, sul territorio. Il progetto personalizzato a domicilio si inserisce all’interno del progetto di cura globale dell’utente, concordato con le figure Istituzionali dei CSM. Il rapporto di fiducia che si instaura tra operatore e utente consente di sperimentare nuove situazioni,  superare le problematiche legate al vissuto del rifiuto e riacquistare fiducia nelle proprie capacità. Spesso assistiamo a situazioni in cui i pazienti attendono l’operatore con l’entusiasmo di poter fare delle cose insieme e di poter godere di un rapporto di fiducia che funge da stimolo per cercare di migliorare la propria esistenza”.

Il tutto, però, si scontra con la carenza di operatori nei servizi di salute mentale e con i tagli che hanno prodotto un affaticamento del sistema su tutti i fronti. E non solo.

“La Legge Basaglia non è in realtà mai stata applicata” dice provocatoriamente Lo Scalzo, in risposta ai recenti interrogativi sollecitati dalla volontà politica di riformare la nota legge sulla salute mentale italiana. “La verità è che, nel momento in cui la psichiatria viene trattata in diverse cliniche private secondo modalità differenti da quelle previste dalla 180 e con strutture che accolgono un numero elevato di pazienti, si sta già tradendo la Basaglia che invece prevedeva strutture” afferma la presidente, tra coloro che nel 1980 hanno fatto parte della rivoluzione che portò a iniziare a far uscire all’esterno i pazienti internati nell’ospedale psichiatrico Santa Maria della pietà, per poi collaborare con i Centri di Salute mentale per l’avvio di strutture territoriali, anche di civile abitazione.

“E’ vero che quando alla malattia di salute mentale si aggiungono altre patologie fisiche le cliniche private offrono delle soluzioni, ma attenzione perché per snaturare la 180 basta che la clinica privata si occupi di gestire l’intera filiera dei percorsi h12 e h24 perché alla fine, quando i pazienti escono in giardino, si trovino tutti insieme nello stesso luogo: gravi e meno gravi. C’è una commistione tale tra gravità e non gravità che rende impossibile la riabilitazione e diventa complicato avviare percorsi di inclusione. La Basaglia, poi, prevedeva un lavoro di prossimità e di territorialità – continua-. Di fatto, i manicomi sono stati chiusi ma la Legge non ha ancora visto realizzate pienamente le sue indicazioni. Ulteriori modifiche alla 180 non potranno portare che a un peggioramento della situazione – dice-. Ora verrà assunto del personale ma il Servizio sanitario pubblico si è trovato per anni, anche in quelli della pandemia, a non poter contare su personale sufficiente. Molti sono andati in pensione e non sono stati sostituiti per diversi anni. Ciò ha favorito gli invii presso le cliniche private”.

Un tradimento inaccettabile per la realtà nata da un gruppo di volontari e studenti di psicologia che si sono ispirati alla rivoluzione di Basaglia. In quegli anni hanno iniziato a operare in funzione dell’applicazione della legge 180 a fianco del Dipartimento di Salute Mentale e hanno collaborato per tirare fuori gli internati dalle mura del Santa Maria per far fare loro diverse attività, attivandosi in due cooperative (Aelle e Il Punto) che poi si sono unite, dando vita alla realtà attuale, operativa nel Lazio ma con progetti anche in altre regioni. “Quelli che abbiamo vissuto  erano anni molto diversi, durante i quali il dibattito sulla salute mentale si era fatto collettivo e le riflessioni profonde coraggiose condivise. Oggi sta succedendo qualcosa di grave: i ragazzi filmano chi sta andando a fuoco e con indifferenza chiedono ‘senti caldo?’ ma non c’è una riflessione autentica e approfondita da parte della nostra società su ciò che sta accadendo – commenta Lo Scalzo -. Non ci sono più trasmissioni o spazi di approfondimento per interrogarci su aspirazioni, obiettivi, problemi e istanze sociali, ma si è concentrati solo sulle polemiche politiche”.

Eppure, il problema della salute mentale sta crescendo. “Oggi ci relazioniamo con pazienti molto giovani che hanno disturbi precoci – racconta-. Spesso ci troviamo di fronte dei quasi adolescenti o dei giovani adulti e ci accorgiamo di come nel corso degli anni la nostra cooperativa abbia dovuto perfezionare tecniche d’intervento, approfondire lo studio e la ricerca per poter affrontare queste nuove sfide, anche con un necessario cambiamento metodologico e di intervento che ci ha visti impegnati in una profonda analisi dei nuovi bisogni delle persone”.

“In un momento così difficile, poi, la cooperazione, con la sua esperienza e la sua storia, avrebbe bisogno di maggiore fiducia da parte delle Istituzioni” aggiunge. “Inoltre, è importante mettere al centro il problema delle liste di attesa che (soprattutto, anche se non solo) per un giovane non possono essere lunghe” dice. Intercettare il disturbo precocemente è infatti la premessa per agire più efficacemente sul problema e avviare così un processo di guarigione più rapido. Ma serve un sostegno anche alle politiche di inserimento lavorativo. Quest’ultimo ha bisogno di tempistiche lunghe, con una fase di tutoraggio seria e attenta, ma – commenta Lo Scalzo – lo Stato ne ricaverebbe un gran guadagno perché un ricovero in SPDC o in una clinica privata ha costi giornalieri molto elevati e se anche l’inserimento lavorativo non viene finalmente interpretato come un investimento, per la salute delle persone, allora sarà difficile uscire da certe dinamiche”. E conclude con una proposta: “Se, ad esempio, alcuni appalti del Comune di Roma, su servizi come la manutenzione del verde, non fossero concepiti solo per i grandi ma consentissero anche alle cooperative sociali, che fanno inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, di potersi candidare con maggior facilità allora sarebbe un’opportunità per creare posti di lavoro. Basterebbe destinare una piccola percentuale di alcuni bandi per consentire anche alle piccole e medie cooperative, di inserimento lavorativo, candidarsi e offrire la possibilità agli utenti di sperimentarsi in concrete esperienze di inclusione”.

Foto di Chen da Pixabay